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Nessuno si salva da solo
Quando la forza del gruppo e il sostegno della famiglia sono l’unica possibilità di rinascita per chi ha disceso l’inferno dei Disturbi Alimentari e, miracolosamente, è risalito
Durante una lezione universitaria finalizzata all’analisi dei processi materiali e mentali espressi dai verbi, il mio docente d’inglese, un uomo più che ordinario ma straordinariamente al passo con i tempi, si è servito di un esempio alquanto inconsueto per rivelare la natura di ciò che la semplice teoria rendeva poco chiaro. Il dibattito sorto attorno alla natura del verbo “mangiare”, che aveva diviso l’aula in fazioni discordi, si è concluso con una sentenza di verità pronunciata a gran voce dal professore: “Laddove qualcuno di voi volesse darmi contro sostenendo che, per chi soffre di disturbi alimentari, l’atto del mangiare è veicolato dalla volontà della persona, devo affermare che, non me ne vogliate, anche in quel caso il verbo “mangiare” indica un processo materiale. È il disturbo che agisce attraverso la mente, a prescindere da ogni genere di volontà.”
Volgendo lo sguardo alla situazione presente (ventiduenne, studentessa di lettere, sopravvissuta alla bulimia nervosa), raccontare della mia esperienza da una posizione privilegiata supera il semplice obbligo morale. È lotta per una causa, vuole essere faro su una zona d’ombra.
Non solo nella speranza di sensibilizzare, testimoniare e, soprattutto, informare riguardo alla dilagante e straziante realtà dei disturbi alimentari, ma per senso di identità, di riconoscimento condiviso con le persone incontrate lungo il viaggio.
Per dieci mesi, la vecchia sede dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce non è stato solo luogo di conflitti interiori, paranoie esistenziali, disagi emotivi, fobie alimentari, ostacoli apparentemente insuperabili e fiumi di lacrime. Per me, ha significato molto di più.
Dallo scorso 12 di Febbraio, il regime di ospedalizzazione seguito alla mia presa in carico dall’equipe di medici operanti sul posto, in seguito ad una diagnosi di DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare), mi ha avviata ad un lento e significativo processo di rinascita. Reduce da un anno di fallimentari sedute di psicoterapia individuale, l’ingresso in un ambiente comunitario o, per meglio dire, un ambiente di molteplici declinazioni di esseri umani, è apparso ai miei occhi come l’ingrediente mancante per la ricetta perfetta: quella della salvezza.
Nel bel mezzo del cammino del non ritorno, punteggiato di episodi depressivi, binge-eating e vomito autoindotto, dove ogni speranza di uscirne viva era stata da lungo tempo abbandonata e dove i giorni erano scanditi dall’attesa di una fine catartica, le quattro mura del Centro per la Cura e la Ricerca sui DCA hanno funto da trampolino di lancio verso una nuova vita per chi, come me, al tempo anima fragile senza posto nel mondo, senza scopo, posseduta nella mente da una forza distruttiva e subdola, era certa di poter essere l’eccezione alla regola.
Noi, consapevoli di essere ogni giorno sempre più vicini alla morte, la sfidavamo imperterriti a duello, a colpi di pasti saltati o sregolati, nella convinzione di poter continuare a vivere con quella sola postura: eternamente in guerra, in punta di piedi sulla cima di uno strapiombo. Bambole di porcellana nel corpo e nella mente, allo sguardo esterno. Semi-divinità vittime di un narcisistico egotismo e perfezionismo, ai nostri stessi occhi.
I disturbi alimentari sono malattie a tutti gli effetti, indipendentemente dal fatto che ne si faccia esperienza attiva o passiva. Lo sono in misura della loro irrazionalità, della potenza sulla quale agiscono sulla persona, sulla sua integrità fisica, mentale ed emotiva. Ad ogni modo si subiscono e ad esserne vittime non sono solo gli individui affetti, ma anche le famiglie e tutte le persone care.
Se c’è una cosa che ho veramente appreso dalla mia esperienza è che la collaborazione triangolare (Centro-individuo-famiglia) rappresenta la medicina più efficace: ricostruisce il rapporto collettivo, brutalmente affetto dalle storture del disagio individuale, lo fortifica, lo rende vitale. Famiglia assume il significato imprescindibile di sostegno, ascolto, comunicazione. E la mia, di famiglia, è stata infusione di vita in un’amorfa ed incolore quotidianità di mera esistenza, lungo tutto il cammino.
Secondo fattore potenzialmente funzionale alla guarigione è la condivisione, nuda e cruda, di ogni aspetto legato alla malattia. Dal più mostruoso ed indicibile, al più disgustoso e pseudo-peccaminoso. Sentirsi parte di più voci fuori dal coro, per quanto paradossale, alleggerisce l’increscioso sentimento di essere soli: i soli a riconoscersi meno di quanto si vale realmente, i soli ad avere sovrapposti i propri pensieri a quelli di un’ombra tanto malvagia quanto rincuorante, i soli a sentirsi mancare pezzi, condannati all’imperfezione e alla mancata accettazione di sé stessi, i soli ad essere perseguitati da ossessioni alimentari, i soli a mettere in atto comportamenti disumani per affermare la propria sovrumanità, nel disperato tentativo di sentirsi meno piccoli, meno fragili… meno.
Essere una delle voci fuori dal coro significa rinascere insieme, vivere una simulazione di rinascita condivisa, esserci quando c’è chi cade e non trova la forza di rialzarsi, esserci quando anche i metodi più comprovati si rivelano fallibili. Essere forza di gruppo per il singolo.
Essere speranza ed esempio per le nuove anime fragili che valicano la soglia d’entrata del Centro; essere timore e preghiera per chi, da un giorno all’altro, non si presenta più.
Essere uno, pur essendo tanti, decisamente troppi.
Marta Palmieri
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