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Disegnare la libertà
Takoua Ben Mohamed ci insegna che conoscere è capire,
al di là di ogni pregiudizio, che quello che sembra diverso,
a volte, non lo è poi così tanto
Con una narrazione che attraversa culture, esperienze e lotte personali, Takoua Ben Mohamed, fumettista e giornalista italiana, si è affermata come una voce potente contro il razzismo e l’intolleranza. Nelle sue opere emerge il desiderio di promuovere il dialogo, abbattere gli stereotipi e battersi per un principio sopra tutti gli altri: la libertà dell’individuo.
Raccontare storie è di per sé un atto di resistenza, un modo per costruire ponti e abbattere muri.
In questa intervista ci parla della necessità di riscoprire l’umanità nell’incontro con l’altro. Perché ogni persona è una storia, e conoscerla significa liberarsi dal pregiudizio.
Ciao Takoua! È un immenso piacere, oltre che un onore, poterti ospitare tra le nostre pagine. Spesso, nei tuoi scritti e, in particolare ne “La rivoluzione dei gelsomini”, ricorre il tema della casa. Qual è casa tua e cosa significa, per te, sentirsi a casa?
La casa che ti mette al mondo non sempre è quella che ti accompagna nel tuo percorso di crescita, dove nasce la tua vera identità. Per me questi due luoghi non coincidono. A chi mi chiede “Di dove sei?” rispondo “Roma”. Non ho dubbi. È a Roma che ho temprato quella che sono. Sono nata in Tunisia, lì ho tanti ricordi legati alla mia infanzia, la sento come un luogo che senz’altro mi appartiene, così come l’Oman dove ho trovato l’amore della mia vita, ma anche tanti posti che ho visitato e mi hanno lasciato qualcosa come la Cambogia, il Mozambico.
Casa, però, è una cosa diversa, è il posto dove vivi quel particolare periodo della vita in cui diventi davvero tu: per me è Roma.
Tra le pagine de “La rivoluzione dei gelsomini” emerge chiaramente l’importanza, la forza, la caparbietà di diverse figure femminili, prima fra tutte quella di tua madre. La posizione delle donne, nelle diverse culture, è sempre più difficile rispetto alla controparte maschile; Come pensi si stia evolvendo la condizione femminile in linea generale? Credi che si stiano facendo dei passi avanti?
Certamente sì. Solo vent’anni fa la situazione era molto diversa, sia nel mondo arabo ma anche in Europa. Mia mamma è stata una donna davvero molto forte ma non era l’unica, il modello che lei incarnava era quello tipico della donna tunisina: una figura forte, sulla quale si è tenuta in piedi tutta la società, ma che non è mai stata raccontata. L’Africa è una società assolutamente matriarcale, ma maschilista. In Tunisia, negli anni 50, sotto la dittatura di Bourguiba, le donne hanno conquistato il diritto di voto, nonché la possibilità di accedere alla scuola pubblica. Le persecuzioni degli anni 90 ci hanno riportato indietro ma è stato proprio in quel periodo che la figura della donna tunisina si è rivelata fondamentale. A quel punto, le donne erano casalinghe ma istruite e si sono occupate di crescere la generazione della rivoluzione.
Leggendo “La rivoluzione dei gelsomini” che racconta la tua storia, dall’infanzia in Tunisia al trasferimento in Italia per ricongiungere l’intera famiglia con tuo padre, ci ha colpito in particolare modo il dolore che sgorga dalle pagine quando parli di Miao, la gattina con cui sei cresciuta e che non hai potuto portare con te. In qualche modo, ci sembra di vedere in Miao il simbolo di un cordone ombelicale che sei stata costretta a recidere, quello con la tua infanzia. Cosa provi, oggi, quando pensi a lei?
Non ho mai più avuto animali, dopo Miao. Lei era un membro della famiglia, ancora oggi con i miei fratelli la ricordiamo spesso. Lei era la guardiana della nostra casa, della nostra vita. Affidarla ai nostri parenti, quando siamo partiti per venire in Italia, è stato un grande dolore. Noi credevamo di venire a conoscere papà per poi tornare in Tunisia, invece lui strappò tutti i nostri visti non appena ci incontrammo, deciso a tenere finalmente unita la famiglia. Miao è stato il simbolo della mia infanzia, segnata dall’aver assistito al modo in cui i miei genitori portavano avanti la loro rivoluzione. In Italia è iniziata la mia.
“Ho scelto di indossare il velo come gesto di ribellione al forte clima di pregiudizi e razzismo nei confronti dei musulmani nel mondo” scrivi ne “La rivoluzione dei gelsomini”. Spesso, in Occidente, si è portati a pensare che le donne col velo siano in qualche modo costrette a indossarlo. Vuoi parlarci del perchè della tua scelta e di quanto, secondo te, questa sorta di islamofobia che ci nutre di convinzioni sbagliate sia dura a morire oppure già meno presente nelle nuove generazioni?
Partiamo col dire che effettivamente esistono paesi in cui il velo è un obbligo, ma sono una minoranza. Per la maggior parte delle donne che decidono di indossarlo, è una scelta personale. Dal punto di vista religioso, il fatto che sia una scelta è fondamentale; se no non ha senso. Io ho iniziato a portarlo per un gesto di ribellione nei confronti dei miei genitori: loro avrebbero preferito che non lo indossassi perché questo mi rendeva bersaglio di una discriminazione più grande. Ho continuato per motivi personali e religiosi. In alcuni momenti ho pensato di toglierlo ma poi ho deciso di isolarmi e riflettere sul perché. Ho capito che l’idea di abbandonare il velo non nasceva mai da una mia volontà ma da una pressione sociale alla quale non mi sono mai voluta arrendere. Portare il velo in Italia è pesante, non è facile, lo era ancora meno quando io andavo a scuola.
Oggi vedo molta più apertura nelle nuove generazioni, lo vedono come qualcosa di normale.
È un problema molto più per gli adulti, anche negli ambiti che dovrebbero essere, per definizione, simbolo di apertura: gli ambienti femministi o quelli culturali. Ricordo quando sono stata presentata come “La ragazza che nonostante il velo ha fatto tante cose”, durante un Festival letterario. Vien da ridere ma dovrebbe far riflettere.
Siamo così lontani da quel concetto di libertà di cui parliamo tanto. Libertà di non indossare il velo, certo, ma anche quella di indossarlo. In questo senso in Italia siamo molto avanti, rispetto alla Francia, ad esempio, dove è vietato portarlo nelle scuole. In Tunisia sino al 2011 le donne con il velo venivano perseguitate.
Bisognerebbe seguire l’unico principio che ha veramente senso, quello secondo il quale ogni individuo è libero nella misura in cui non limita la libertà dell’altro.
Un altro dei tuoi scritti si intitola “Il mio migliore amico è fascista” e racconta del tuo compagno di banco che si professava fascista ma che, in realtà, non sapeva bene nemmeno il significato del termine. Perchè, secondo te, ancora oggi, soprattutto tra i giovani, persiste questo culto? Per quale assurdo motivo, fascisti veri a parte, fa ancora figo professarsi tali?
Se da una parte vedo un’apertura mentale maggiore, nelle nuove generazioni, dall’altra cresce anche un ritorno al fascismo. L’Italia vive una grande frustrazione a causa del precariato, della crisi economica, che porta a incolpare l’ultimo arrivato. È pericoloso. Ma cosa possiamo pretendere se queste generazioni, sin dall’infanzia, vivono in un contesto permeato dal fascismo? Giornalmente esposte a slogan fascisti, discorsi, simboli. Il problema è sicuramente familiare ma anche scolastico. A scuola insegnano il colonialismo come il processo attraverso il quale il resto del mondo viene civilizzato, gli arabi sono dipinti come brutti e cattivi. Immagina di essere a scuola, seguire una lezione di questo tipo ed essere araba. Bisognerebbe superare la narrazione eurocentrica della storia.
Secondo me c’è proprio un problema di istruzione, di programma scolastico che non va di pari passo con il tempo. Anche i mass media fanno la loro parte, con quel linguaggio cinematografico che permea tutti i telegiornali.
Sì, le nuove generazioni hanno una consapevolezza diversa oggi, ma non basta.
Noi ti ringraziamo e, se ti va, ci piacerebbe che ci lasciassi con un augurio per i lettori di Kamala.
Il mio invito è quello a essere più umani, c’è tanto bisogno. Guardare l’altro come una storia e non come un oggetto è fondamentale. Non sottovalutare noi stessi per non sottovalutare gli altri.
Elena Amante - Metropolitan Adv
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