Il motivo per cui esistono persone e studi che si sforzano di raccontare cosa sia la “cultura del rispetto” non sta nel significato della parola “rispetto” e nelle pratiche che lo rendono un’abitudine, ma nella difficoltà della parola “cultura”.
Se immaginiamo il rispetto come una tecnica da usare nella comunicazione, o nella pratica quotidiana delle relazioni, allora non abbiamo capito nulla della cultura del rispetto. Il rispetto non è uno strumento da usare in questa o quella situazione, uno skill di cui impadronirsi, una capacità da coltivare e allenare per essere efficaci.
Il rispetto è un ambiente relazionale nel quale chiedere di entrare, trovarsi e da mantenere con le persone intorno a noi. Si tratta di una cultura perché non investe solo alcune nostre capacità o particolari doti, ma ci chiede di creare insieme agli altri qualcosa che è più della somma delle capacità dei singoli di mettersi in relazione rispettosa tra loro.
Noi non sappiamo nulla della relazione che gli altri e le altre hanno con i loro corpi. Questo va innanzi tutto rispettato. Qualsiasi forma di cultura si basa sulla conoscenza viva, cioè non solo teorica e informativa, ma anche pratica ed etica. Possiamo essere d’accordo sul rispetto in generale, ma poi dobbiamo conoscerlo nell’ambito particolare e vivente nel quale ci troviamo. Il primo segno di rispetto per la diversità altrui – diversità che esiste sempre, perché siamo tutti e tutte diversi – è fare domande, interessarsi, e non dare per scontato di sapere qualcosa riguardo quella diversità.
Se questo può sembrare facile avendo a che fare con corpi evidentemente diversi dal nostro – chi ha la pelle di un colore diverso, chi viene da un altro luogo, chi ha un corpo che funziona in maniera diversa dal nostro – quello che è molto difficile è praticare il rispetto per i corpi abitualmente concepiti più simili al nostro. Non esiste una tecnica sempre giusta da usare, perché non esiste “il” rispetto. Quello che dovrebbe esistere è la volontà di chi condivide uno spazio e un tempo comuni di renderli piacevoli e funzionali per tutte le diversità che si troveranno ad abitarli, anche quelle che in questo momento non ci sono, anche quelle che ancora non conosciamo, anche quelle che ancora non abbiamo imparato a vedere.